Scienza e tecnologia

Russia e Ucraina: perché parliamo di guerra, di pace e di mafia

 

Orio Giorgio Stirpe War

 immagine tratta dal canale Telegram "War in Ukraine"

KIEV. Questo spazio normalmente ospita articoli dedicati alla scienza e alla tecnologia ma, in tempi tragici e di guerra come questi, penso sia necessario parlare proprio in questa sede di quanto il progresso tecnologico sia responsabile di qualsiasi guerra o di qualsiasi pace. Necessario farlo in questi giorni anche perché la guerra in Ucraina si sta avvitando in una pericolosa escalation, grazie ad un mix letale di azioni sul campo e di utilizzo di armi che, pur essendo sempre più tecnologicamente avanzate, sembrano poste al servizio di  logiche che, secondo gli esperti di cose militari, determinano scelte militarmente incomprensibili. Logiche che sembrano più mafiose che militari.

Da una parte l'Ucraina che spera di risollevare le proprie sorti lanciandosi alla riconquista di territori occupati, con i generali che, anche grazie alle armi e ai servizi di intelligence fornitigli dall'Occidente, non esitano ad attaccare con forze esigue mandando al massacro migliaia di uomini pur di guadagnare villaggi e territori di poco conto.

Dall'altra parte una Russia che migliaia di uomini e mezzi li ha già persi in una assurda guerra di invasione e il suo nuovo Zar, Vladimir Putin, che rabbiosamente e con le spalle al muro  non esita ad usare ogni mezzo, compresi i moderni  missili ipersonici Kinzhal missili da crociera Kalibrcontro infrastrutture e impianti civili intorno a Kiev. Missili lanciati dalle navi della flotta russa schierate a oltre 600 chilometri di distanza. Una escalation di questo tipo, secondo alcuni, può portare ad un conflitto nucleare. 

Certo è che stiamo assistendo, in particolare dopo l’attentato di matrice Ucraina al ponte di Kerch in Crimea (LINK), ad una "roulette" russa sotto forma di pioggia quotidiana  di missili che stanno colpendo in modo indiscriminato Kiev e  le sue infrastrutture o edifici allo scopo di uccidere civili per intimorire l'avversario. Tutti i media ne stanno dando notizia e anche noi lo facciamo (LINK). 

Secondo alcuni analisti questo è solo un modo "mafioso" di comportarsi,  senza nessun onore e nessuna etica di guerra,  come due pugili sul ring giunti allo stremo delle proprie forze, che cercano di  capire quale sia il limite strategico di entrambi. Vogliono tutti e due evitare il KO, per sedersi all'angolo ad attendere una vittoria ai punti e potersi spartire quello che resterà delle macerie intorno a loro. 

Ecco perché stiamo tutti parlando di guerra quando si vorrebbe e dovrebbe parlare solo di pace. 

Ma noi vorremmo farlo soprattutto per non dimenticare mai di quale pace e di quale guerra stiamo parlando. Perché dovendo parlare di guerra almeno non sia per cercare il favore degli stessi politici e governi incompetenti, che quelle guerre auspicano o decidono. E non si cerchi nemmeno il favore dell’opinione pubblica, imbecille, ondivaga e superficiale che sembra schierarsi alternativamente per l’una o l’altra parte in conflitto, sui social ma anche sui media tradizionali di qualsiasi tipo,  parlando a ruota libera di argomenti molto complessi come questi senza averne spesso la minima competenza.

Una opinione pubblica che, grazie ai media, crea il proprio immaginario collettivo in modo del tutto autoreferenziale e soggettivo. Senza nessuna oggettività o conoscenza reale si parla di guerra e di pace sui social esattamente come finora si è parlato di economia, di politica, di migranti, di cambiamenti climatici, di pandemia, di Covid e vaccini.

Di questa guerra ne parlano in tanti, in troppi a vanvera, si tratti di intellettuali o  casalinghe di voghera poco cambia. Tanti opinionisti e tuttologi parlano di guerra per un gettone in Tv o per i propri 15 minuti di celebrità. Di guerra e di pace ce ne parlano tutti e ne parliamo tutti. Esattamente come si farebbe al bar, pavoneggiandosi in panni da  "todos caballeros".

Ognuno con la propria insulsa opinione da provetto allenatore incompetente della nazionale di calcio prima delle partite del mondiale. Partite a cui, guarda caso, stavolta noi italiani non parteciperemo.

Quindi, secondo noi, se proprio si è costretti a parlare di guerra, si dovrebbe farlo con competenza tecnica e con spirito critico per approfondire, per informarsi e informare tutti. 

E si deve farlo anche quando l'argomento diventa scomodo sia per le minoranze di pacifisti a oltranza che per le maggioranze silenziose di miti "benpensanti" che, se costretti, "imbraccerebbero un fucile". 

Necessario essere scomodi  per aprire e non chiudere mai gli occhi del "vivere civile" di fronte alle tragedie causate dalle armi al servizio della guerra o della pace. Perché entrambi, tutte le guerre e ogni pace, vengono decise e portate avanti raramente dai popoli o dalle loro rivoluzioni. Sono sempre e soltanto i potenti, i governi, le lobby economiche e le oligarchie o le dittature a decidere le sorti di guerra o di pace del proprio  "popolo bue", quando guadagnano il suo consenso attraverso la propaganda e le menzogne.  Forse è scomodo ammetterlo, ma questo è quanto avviene sia nelle democrazie che nei regimi, a Oriente come a Occidente.

Sicuramente, se vogliamo farlo  in modo oggettivo e sincero,  non si può parlare di guerra o di pace usando le parole dei media e della "comunicazione" che si definisce "embedded" e a cui siamo oggi ben assuefatti. Sono parole di ben poco senso che, secondo alcuni, rappresentano solo  il raglio di un asino legato alla mola al centro di un’arena.

Però è altrettanto difficile farlo attingendo alle altre varie fonti che si considerano alternative e libere rispetto ai canali "mainstream". Come le centinaia di chat su Telegram  o altri social media che vomitano contenuti di qualsiasi tipo, alimentati con cura dai "troll" al servizio della propaganda di stato o postati spesso direttamente dalle persone: i civili nelle città sotto assedio oppure i soldati dei diversi eserciti  in diretta dalle zone di combattimento. Una "mostra delle atrocità" anche essa "embedded" nel senso che viene "ingaggiata"  in tempo reale sul posto, senza filtro alcuno, dove si passa tranquillamente dallo scempio dei cadaveri ammassati nelle fosse comuni di Bucha al canto patriottico dei bambini Ucraini, dal pianto delle madri dei coscritti russi inviati al fronte alla pubblicità erotica della porno-model di turno.   

Quindi parlare di questa guerra, alle nostre latitudini e in modo oggettivo, è sempre più difficile. Viviamo in luoghi e paesi che, per fortuna, non vedono una guerra "reale", con pallottole, sangue e cadaveri sulle strade da molte generazioni. Ecco perché, anche noi possiamo giusto girarci tutt’intorno, liberi ma forse solo all’apparenza,  in questo strano limbo di “deterrenza”, fatto di armamenti, macchine e strumenti di guerra “per la pace”, militari,  sociali, finanziari, economici.

Siamo anche noi povere bestie da soma sotto il giogo di  una “macina” che ci ostiniamo a chiamare di pace per nascondere quello che realmente è.  Una macchina da guerra, preparata in tempo di pace, perché forse non è proprio possibile, per il genere umano, farne a meno.

Ecco perché si parla di guerra anche quando vorremmo parlare di pace: siamo costretti a farlo dalla Storia e dagli eventi quotidiani. Ormai la pace è solo una sottile linea rossa, sempre in aggiornamento sulle mappe, messa lì a separare i nostri luoghi/non luogo di apparente quiete,  dai molti luoghi reali nel mondo dove imperano morte e distruzione. Sono luoghi e genti che spesso non vediamo solo perché siamo distratti altrove.  Troppo facile quindi parlare di pace, volgendo la testa dall’altra parte e rimuovendo i conflitti quotidiani, economici e anche sociali,  sempre più vicini a noi, che esistono da sempre.

Come da sempre esistono le “economie di guerra" che non riguardano solo la fabbricazione, il commercio o la proliferazione di armi ed eserciti ma sono, le economie e politiche industriali ampie e complesse che, non dimentichiamolo, muovono enormi profitti economici su cui si basano la finanza e i mercati mondiali, sia in oriente che a occidente.  E sono gli stessi profitti economici che, in modo più o meno occulto, reggono le sorti di sviluppo economico e tecnologico  dei nostri Paesi, che pensiamo essere civilissimi esempi di democrazia e di società. Idilliaci luoghi di libertà, di diritto e di pace secondo le nostre Costituzioni repubblicane. Ma forse proprio così non è. Anche le nostre società occidentali dipendono dalle economie globali di guerra al servizio del capitalismo mondiale.

Di quanto fossimo tutti dipendenti da queste economie globali al servizio del capitale, in realtà, ce ne rendiamo conto solo ora, a nostre spese, con una guerra ai confini dell’Europa, di fronte ai prezzi allucinanti del gas, del carburante o del pane. 

Quindi forse per noi è stato finora facile parlare di pace e di guerra con la pancia piena, intervenendo a vanvera sui “social” con il nostro cellulare costruito e venduto grazie allo stesso progresso tecnologico del capitalismo che muove gli armamenti. L’abbiamo potuto fare liberamente, belli e a cuccia nel ventre molle e confortevole  di questo  “progresso” che, per farci progredire si è sempre posto al servizio dei mercati.

Ogni mercato che conosciamo è solo una rappresentazione virtuale dell'immenso Suk del  “capitalismo” globale e globalizzante. La pace, al pari della guerra, l’affermazione della democrazia e della libertà ma anche la loro negazione esistono solo se in grado di obbedire alle stesse regole del comprare e vendere dentro quel grande mercato. Il “Capitale” globale è l'unico fine a cui tutti, in Italia come altrove, obbediamo. Fine che giustifica i mezzi di quella enorme macina/macchina di guerra e di pace che abbiamo costruito e di cui siamo complici umani pienamente consapevoli.

Per questi stessi motivi credo sia altrettanto abbastanza facile invocare una pace, senza più eserciti e armi, anche vivendo qui in Sardegna. Nessuno di noi dimentica che la Sardegna è una terra che, dopo il secondo dopoguerra, è stata l'ultima fra gli ultimi e i perdenti. Terra che sconta decenni di servitù militari, territoriali, politiche ed economiche,  pagando un prezzo davvero alto per il mantenimento di  fragili “equilibri” nel mediterraneo. Siamo sempre stati una Terra di conquista al centro del mediterraneo, sempre in bilico tra nord e sud o est e ovest di un mondo continuamente in guerra.  Anche dopo Jalta. Soprattutto dopo Jalta.

Volenti o nolenti siamo anche parte di un paese, l’Italia, che ha perso una guerra grazie al fascismo e alla monarchia e ha trovato fortuito riparo sotto l’ombrello di una difesa militare comune che,  sarebbe bene ricordarlo,  è tale soprattutto grazie a quelli che nella seconda guerra mondiale erano nostri nemici. Quelli che hanno armato i nostri partigiani, che lottavano per la libertà contro i nazifascisti,  esattamente come noi oggi, insieme a loro, armiamo gli Ucraini. Quindi siamo, per questo motivo, grati, obbedienti e debitori verso gli Stati Uniti, l’Unione Europea e la NATO.  

Dobbiamo tenere a mente tutte queste cose quando parliamo ancora di questa guerra. Nonostante sia più semplice e facile volgere lo sguardo altrove e parlare solo di pace di fronte ad una comoda guerra  “NIMBY.  Si riesce comunque a dormire tranquilli se non sentiamo le bombe nel nostro giardino. 

Ma volgere sempre lo sguardo altrove, rimuovere il problema abbassando il capo, spesso è anche solo un espediente per sopravvivere alla giornata o peggio ancora, per vivere in quiete e connivenza accettando le prevaricazioni dei potenti. Lo stesso modo con cui, per lungo tempo e nel silenzio della paura, questo nostro paese ha affrontato le Mafie.  Prima di provare con coraggio a combattere e rialzare la testa.

Ecco perché penso che sia giusto parlare di guerra a testa alta e aprendo gli occhi. Come  si dovrebbe parlare di mafia, innanzitutto chiamando le cose con il loro nome. Per riconoscerli a vista i mafiosi e i loro conniventi.

E per farlo nel modo tecnicamente più corretto, in questo articolo,  ospito il pensiero di un militare, un esperto di guerra della NATO.

Perché si tratta di qualcuno che penso abbia le competenze per parlare di guerra, definendo Putin "come un mafioso". 

Questo militare è il colonello  Orio Giorgio Stirpe ufficiale dell’Esercito Italiano, in servizio NATO dal 2007 e in pensione dal 2020.  Stirpe è stato comandante di unità di fanteria e analista militare dell’intelligence, specializzato in guerra convenzionale e ibrida, impegnato quotidianamente nella valutazione delle minacce dei diversi scenari  in Europa e nella regione del Medio Oriente e del Nord Africa. Dal 2011 ha diretto l’Intelligence Support to Targeting all’interno del NATO Rapid Deployable Corps in Italia, il team multinazionale di analisti militari incaricato di condurre l’intelligence necessaria per identificare, localizzare, tracciare e analizzare gli obiettivi sul campo, attività che consente il compimento di  missioni di diverso tipo in ambito NATO.

Il testo che segue è tratto dal suo sito e profili social, (LINK)  in cui lui, fin dall’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina, pubblica un’analisi puntuale e quotidiana con un resoconto di quanto avviene nelle zone di guerra, esaminando tutto sotto il profilo “tecnico” da competente analista militare.

Ospitiamo un militare per parlare di guerra, di mafia, di pace, di paura e di coraggio appunto. Con cognizione di causa e quando proprio non si può farne a meno.

 

Testo di Orio Giorgio Stirpe:

“ L’attacco al ponte di Kerch è stato per Putin un affronto.  Per una mentalità mafiosa, gli affronti vanno lavati nel sangue. E la mentalità di un autocrate è mafiosa. Mafiose sono le pretese di “rispetto”, la distinzione fra interlocutori “veri” oppure “dimezzati” (le “Potenze” e le “Colonie” di Putin non possono non ricordare i “veri uomini” e i “quaquaraquà” del “Giorno della Civetta”), le minacce velate e le esigenze di rappresaglie spettacolari.

Nell’ambito di un conflitto armato convenzionale, le rappresaglie devono necessariamente assumere l’aspetto di “escalation”, altrimenti non sortiscono l’effetto intimidatorio desiderato. Il problema di Putin con il caso dell’attacco al ponte, è che non sa come condurre l’escalation desiderata perché ormai è a corto di opzioni militari.

Lo è da tempo, e questo gli genera frustrazione, anche perché i suoi accoliti più fedeli e abituati a compiacerlo evidenziando idee e propositi che sanno appartenergli, continuano a reclamare a gran voce di “togliersi i guanti e fare sul serio”... Che è esattamente quello che vorrebbe fare, solo che i “guanti” se li è tolti da un pezzo e ormai a fare sul serio sono più i suoi avversari che non i suoi uomini sul terreno.

Esclusa l’opzione nucleare per le ragioni già richiamate innumerevoli volte, ormai non rimane altro da fare che proseguire con le modalità già in atto, che sono le più violente possibili per il malandato strumento militare russo.

Nella sua frustrazione, l’autocrate-padrino ha ordinato una serie di attacchi terroristici sulle città ucraine, che non ne subivano più ormai da un paio di mesi.

Il motivo per cui queste città – peraltro già tutte attaccate in passato – non subivano più attacchi non era che i russi avessero deciso di limitarsi per ragioni de-escalatorie, ma perché stavano rapidamente rimanendo senza munizioni.

Come già innumerevoli volte, Putin ha deciso di prevaricare i suoi generali che cercavano di risparmiare i pochi missili rimasti e di ordinare una raffica di bombardamenti non pianificati sulle aree urbane, chiaramente senza bersagli militari specifici, allo scopo di rispondere all’affronto dell’attacco al “suo” ponte.

Il risultato di questi bombardamenti sarà di causare ulteriori perdite alla popolazione civile, di indurire ulteriormente lo spirito degli ucraini, di infangare ancor più l’onore e il prestigio militare russo, e di ridurre ulteriormente le disponibilità di missili a medio e lungo raggio disponibili, senza ottenere in cambio alcun vantaggio militare.

La domanda che sorge spontanea a un qualsiasi osservatore intelligente, anche privo di competenze militari,  è perché quegli stessi missili non siano invece stati impiegati per colpire le forze militari ucraine che impegnano quelle russe intorno a Kherson, quelle che difendono Bakhmut dai gruppi Wagner, o meglio ancora quelle che continuano ad avanzare nel nord verso Svatove. 

La risposta è che mentre per il bombardamento terroristico di una città basta conoscerne le coordinate geografiche generiche, per colpire un’unità militare occorre conoscerne la posizione precisa al metro; e le forze russe non hanno la capacità di rilevare ed utilizzare le coordinate di precisione.

È triste, ma è così... 

Ancora più triste è che qualcuno avrà ancora il coraggio di dire che Putin “si è limitato” nei suoi attacchi, perché non è passato alle armi nucleari. Il bombardamento indiscriminato di condomini civili è visto da alcuni come una “risposta limitata” da parte di un leader intento ad evitare danni ai civili anche se è costretto a rispondere alle azioni irresponsabili di qualcuno che ha colpito il suo ponte preferito... Ponte che per le leggi internazionali è un obiettivo di gran lunga più legittimo di un condominio residenziale.

Già, perché nonostante tutto, è ancora viva l’opinione di alcuni secondo cui i russi stanno evitando coscientemente di fare gli stessi danni che invece gli americani farebbero normalmente nelle “loro” guerre, come a Belgrado o a Kabul.

Peccato che a Belgrado non siano stati distrutti condomini, e che Kabul non sia stata bombardata del tutto dagli americani, ma che sia stata liberata intatta come Baghdad, e che il loro ingresso in tali capitali sia avvenuto in mezzo a folle festanti come riportato da giornalisti di tutto il mondo. I danni sono venuti più tardi, in successivi scenari asimmetrici che comunque non hanno mai visto bombardamenti indiscriminati di aree urbane.

Il fatto è che la violenza dell’autocrate, come quella del padrino, non è oggetto di critica: loro sono i cattivi, e quindi per chi è abituato a portargli rispetto non ha senso criticarli. La critica va riservata a chi – opponendosi alle pretese di rispetto – provoca la loro naturale reazione.

Si tratta di un atteggiamento assimilabile a quello di chi protegge gli animali selvatici: il lupo e l’orso vanno rispettati nella loro ferinità, evitando di provocarli e lasciandoli andare per la loro strada... Pazienza se ogni tanto si portano via una pecora o due. Se invece li si provoca, è normale che reagiscano, magari facendo anche del male a delle persone.

Questo naturalmente è un discorso validissimo: punta al mantenimento dell’ecosistema, alla difesa di animali a rischio estinzione (le pecore non lo sono), e ovviamente dipende dal fatto che con l’orso o con il lupo non è possibile discutere.

D’altra parte è anche vero che – quando la fiera, provocata o meno, attacca un essere umano – dopo viene abbattuta. Le analogie andrebbero seguite fino in fondo...

Chi considera una “provocazione” quanto fanno gli ucraini per difendersi dall’aggressione, compreso l’attacco al ponte di Kerch, in larga parte non lo fa per affetto o ammirazione per Putin: questo è un fatto. Ci sono sicuramente i servi innamorati del cattivo (i “minions”), che giustificano ed esaltano tutte le sue azioni a prescindere, ma per fortuna sono una minoranza; la vasta maggioranza dei critici di Zelensky sono persone spaventate, che sanno pensare ad una cosa sola: la Bomba. Queste persone vivono ormai nell’incubo che il cattivissimo, provocato in maniera irresponsabile, impazzisca e decida per rabbia di distruggere il mondo, e loro con esso.

Non tornerò sulle ragioni per cui questa eventualità sia estremamente improbabile e non dovrebbe condizionare le nostre scelte: mi sono stancato di farlo, e soprattutto continuare a parlarne fa esattamente il gioco dell’autocrate-padrino.  Quello che mi colpisce, abitando largamente all’estero e spostandomi di frequente, è che questa paura quasi irrazionale alberghi soprattutto se non quasi esclusivamente in Italia.

Mi sorge quindi il dubbio del perché.

Non è che l’Italia sia più esposta alle rappresaglie nucleari dell’orso Vladimiro rispetto alla Norvegia o alla Danimarca, e sicuramente lo è di meno rispetto alla Francia o alla Germania, per non parlare naturalmente della stessa Ucraina. Né è ragionevole pensare che gli italiani siano maggiormente informati o abbiano una consapevolezza maggiore rispetto a tutti gli altri europei.

Ma allora, perché in Italia c’è tutta questa paura che non trova riscontro nel resto d’Europa?

Mi secca moltissimo, ma temo di dover tornare all’analogia autocrate-padrino.

In Italia siamo condizionati in maniera vergognosa dal modo di pensare mafioso, e una larga fascia di popolazione continua a pensare dentro di sé che l’unico modo di trattare con la mafia è conviverci, cercando di ignorarla piuttosto che combatterla; perché porgere al padrino un minimo di rispetto è più semplice e sicuro che non provocarlo.

C’è una fascia di popolazione che pensa ancora che il nemico non siano i mafiosi, ma i Carabinieri che cercano di combatterli.

Sono un militare, e sono figlio di un Ufficiale dei Carabinieri: io di questa gente mi vergogno, esattamente come mi vergogno che nel mio Paese ci sia la mafia.

 La paura si combatte con il coraggio. Scegliere coscientemente di vivere nella paura significa essere vigliacchi.

L’orso Vladimiro adora i vigliacchi, e prospera su di essi. Esattamente come la mafia.